Diamo un nome alle cose

Dal 7 gennaio ad oggi ognuno di noi avrà letto decine di articoli su ciò che è accaduto a Rosarno nelle ore caotiche della ‘notte delle arance’. A parte il censurabile Maroni; a parte Bersani, sbiadito come il suo partito; a parte Saviano, silenzioso, puntuale e lucido nell’analisi del caso; a parte i coraggiosi veri, quelli dell’associazione “Gli Africani salveranno Rosarno”; a parte che quello che accade nella Piana di Gioia Tauro lo sanno tutti da almeno un decennio; a parte tutto, insomma, sarebbe meglio ascoltare la voce di chi sa perché vive il quotidiano di questa realtà nella veste duplice di straniero e calabrese. Gli stralci che riporto appartengono a un intervento pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale n.829 a pagina 19. L’autrice è Geneviève Makaping, giornalista e antropologa camerunese residente in Calabria da oltre trent’anni. Il titolo è quello che avrebbero dovuto scrivere a caratteri cubitali tutti i quotidiani nazionali in questi giorni: “Chiamare i mafiosi per nome”.

Vivo in Calabria da più di trent’anni e in questa terra mi ci rispecchio. Rosarno, come la Calabria, non è tutta razzista. Per colpa di alcuni prepotenti non si può “marchiare” un’intera regione. Ma bisogna chiamare i mafiosi con il loro nome. Il comune di Rosarno è stato commissariato nel 2008 per infiltrazioni mafiose ed è difficile che duemila migranti possano invadere una cittadina di 15mila abitanti. Ancora una volta la questione dell’immigrazione è stata presentata dai politici come un problema di sicurezza. Da immigrata, ma soprattutto da calabrese, mi sono sentita insultata dalle osservazioni del ministro dell’interno Roberto Maroni, secondo il quale la rivolta di Rosarno è colpa dei calabresi che sono stati troppo tolleranti con i clandestini. Cosa avremmo dovuto fare? Noi non buttiamo in mare nessuno e non spariamo. E poi chi sono i “clandestini”? Alcuni sono in attesa del permesso di soggiorno, altri hanno chiesto l’asilo politico. Sono persone ch puntualmente, una volta finita la stagione di raccolta degli agrumi, tornano per strada. Alcuni spacciano droga ma, accanto a loro, ci sono milioni di immigrati che danno il loro contributo al pil nazionale. Sono artefici della ricchezza materiale dell’Italia ma anche di quella immateriale, garantendo una diversità culturale di usi e costumi. A Rosarno abbiamo perso una buona occasione. Siamo scesi in piazz solo per dire che non siamo razzisti invece di urlare agli sfruttatori ch devono lasciare la Calabria.


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