Soltanto un giornalista


Visto il primo degli otto dividì distribuiti dal “Corriere della Sera” per il centenario montanelliano
Che noia quando non parla Indro!

Scilla (Italia), 23 aprile 2009

Da adolescente e da giovanissimo m’ero convinto dell’immortalità di Montanelli. Si fa per dire, ovviamente. Ma, diciamo, ero sicuro che al 2009 ci sarebbe arrivato vivo e lucido come ci è arrivata Rita Levi Montalcini (nata il suo stesso giorno, mese e anno) e come, prima di loro, Giuseppe Prezzolini (classe 1882) – uno dei punti di riferimento professionale e umano di Montanelli – arrivò al suo centenario, nel 1982.
Intendiamoci: non che si debba rimpiangere una vita condotta con discreta salute fisica e mentale per novantadue anni, come se si trattasse di un'”incompiuta”. Non mi chiedo più – come feci ad esempio ai giorni del G8 di Genova nel 2001, che poi coincisero con i suoi ultimi, o, ancor più, di fronte all’abbattimento delle Torri Gemelle di Nuova York, l’11 settembre di quello stesso anno – “che cosa direbbe Montanelli?” Però, insomma, da un cervello, una penna ed una parola così non vorremmo mai liberarci!
Meno male che, come ha più volte ribadito di recente la senatrice Levi Montalcini nelle numerose occasioni offertele dalle celebrazioni per il suo centesimo compleanno, la morte si porti via solo il corpo e non le idee ed i valori propugnati e difesi o le ricerche e i documenti prodotti in vita.
E così la Rai, il “Corriere della Sera” e la Fondazione Montanelli hanno raccolto molti di questi documenti, con riguardo principalmente per quelli audiovisivi, per comporre una collezione di otto dividì della quale è in edicola la prima puntata.
C’è molto di che annoiarsi. Soprattutto quando non è Montanelli a parlare. Sì, lo so che i moderni dividì consentono di maneggiare a proprio piacimento capitoli, paragrafi, extra etc. Però anche le generazioni giovani di questo primo Duemila ci mettono un po’ a carburare completamente con le nuove tecnologie come accadeva a Montanelli, avvinghiato fino all’ultimo alla sua “Lettera Ventidue” Olivetti come se si trattasse di un’appendice del proprio corpo…
Però, a parte che è sempre piacevole ascoltare la voce di Indro come lo è leggere i suoi pezzi, qualche scoperta interessante la si fa.
Come la “profezia” fatta da Biagi a Montanelli nel 1971 di una possibile sostituzione, nel 2000, del giornale quotidiano con mezzi elettronici. Come anche il fatto che l’autorevolezza che circondava Montanelli nell’ultimo decennio della sua vita fosse, in realtà, presente almeno fin dagli anni ’60. E’ ancora Biagi, ad esempio, a dirgli, nella stessa trasmissione citata, di considerarlo “il più bravo di noi tutti” e di associarlo a Giulio De Benedetti nella “coppia” di giornalisti da lui considerati come punti di riferimento.
E’ sempre Giorgio Bocca, poi, fin dal ’69 a mettere Montanelli in un certo imbarazzo per il suo rifiuto di osservare analiticamente fenomeni dirompenti come la contestazione giovanile di quegli anni e la sua tendenza ad alternare analisi politico-sociali raffinatissime a “strizzatine d’occhio” alla laboriosa ma culturalmente mediocre media borghesia. Montanelli incassa con garbo, non vivendo come un dramma l’impossibilità di piacere a tutti.
Gli spezzoni sono parecchi e i profili d’interesse pure.
Le tre costanti che si ricavano mi pare siano la denuncia montanelliana contro la tradizionale autoreferenzialità ed organicismo al potere di turno della cultura, soprattutto letteraria, italiana fin dalla notte dei tempi. Il fatto che la libertà della stampa trovi un ostacolo insuperabile, in fin dei conti, soltanto nella mancanza di “attributi” del singolo giornalista (nonostante l’appartenenza a tutt‘altra epoca ed il paragone goliardico-anatomico, suppongo che anche lui sottintendesse “e della singola giornalista”). Ed il rimpianto per non essere riuscito a mantenere in vita un giornale – magari con pochi, ma culturalmente attrezzati, lettori – che fosse in grado di sopravvivere dignitosamente senza le invadenze della proprietà o il sostegno-ricatto degl‘inserzionisti pubblicitari.
Ecco perché egli stesso dichiara di non esser stato un buon editore di se stesso; di non aver avuto la vocazione del direttore ma di aver dovuto ricoprire questo ruolo, nel 1974 e nel ’94, per ragioni di responsabilità politico-sociale e di esser stato, alla fine, soltanto un giornalista.
No, non è poco…

Giovanni Panuccio
giovannipanuccio.blog@gmail.com


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