E’ PAVATU!

Quando scoppiò tangentopoli, tutti furono felici e contenti. Si disse: “E’ finita l’epuca ri ‘mbrugghiuni e ri latri, chi si mangiaru l’Italia”.
Per sgombrare il campo dai vecchi rottami di quei partiti che avevano governato l’Italia in tempi non certo migliori di questi, ci si affrettò ad eliminare i vecchi simbolismi: lo scudo crociato e il garofano, in primis, da simboli ideologici divennero simboli della vergogna più assoluta, di qualcosa che, improvvisamente, tutti (o quasi) hanno disconosciuto mentre correvano. Andavano lontano dall’Italia o correvano a nascondersi, fuori dalla luce dei riflettori della ribalta mediatica italica.
Del “vecchio”, vuoi per una ragione, vuoi per un’altra, resistettero solo la falce e il martello. Ma erano arrugginiti, e siccome nessuno aveva voglia di darsi da fare con la carta vetrata per dargli una pulita, si fece una cosa più semplice:  li si nascose all’ombra di una quercia.
Non tanto bene, poiché un piccolo gruppetto, o perché nostalgico o perché, nonostante tutto profondamento convinto, li dissotterrò, riproponendoli al pubblico seppur arrugginiti, mentre gli altri, ex compagni, voltavano la testa dall’altra parte, fingendo di non accorgersene, in fondo contenti di essersi levati, formalmente, le insegne di un peso ingombrante.
Non passò molto tempo però, che i neocompagni si divisero, vittime di incomprensioni e di visioni che provocarono una sorta di “atomizzazione” della sinistra: unu si prese la falce, uno il martello, altri ancora il manico della falce, altri ancora il manico del martello. Tutti, si ritrovarono in mano qualcosa privo d’identità, inservibile.
Ad accompagnarli, l’alfiere, il paladino che aveva scardinato il vecchio sistema di potere e,  in cambio, aveva ricevuto una sorta di legittimazione politica a furor di popolo, il quale, reso cieco dalla troppa gioia per essersi liberato dell’odiata partitocrazia, lo acclamò come gli antichi tribuni romani.
Dall’altro lato, a destra,la barchetta di chi era stato diseredato perché figlio di un “padre” che aveva portato l’Italia alle rovine della guerra, trovò così lo spazio libero in quel mare di confusione e, attuando una profonda “conversione democratica”, si è dato una nuova identità, arrivando dopo mezzo secolo a rivedere le poltrone più pregiate dei nostri palazzi istituzionali.
Alla barchetta si affiancò una nave, a bordo della quale salì o si arrampicò su per le murate con le unghie e con i denti un’umanità varia, comprendente il capopopolo di un’entità non identificata e alcuni naufraghi dei vecchi partiti, usciti dall’ombra e intruppatisi senza dar nell’occhio.
A guidare la nave non era un esperto capitano, ma un semplice cantante di bordo, che -un karaoke oggi e uno domani- ammaliò tutti coloro che non si erano voluti tappare le orecchie con il suo canto melodioso e incantatore, peggio delle sirene con Ulisse.
Era la seconda Repubblica. Era il nuovo che avanzava. Niente più sarebbe stato come prima.
Oggi, a distanza di quasi vent’anni, possiamo dirlo: c’eravamo illusi. E illusione fa rima con delusione.
Qualche mese fa, il presidente della Camera Fini disse Fini «Oggi chi ruba non lo fa per il partito ma perché è un ladro. »
Ma anche chi rubava per il partito era un ladro. Le differenze sostanziali con oggi sono due. La prima: chi veniva “beccato”, pur di non arrecare danno al partito, nella maggioranza dei casi era lesto a dimettersi. Cadevano i governi, si facevano i rimpasti e l’Italia andava avanti.
La seconda: a mia memoria, non ricordo che qualche ministro o presidente della prima Repubblica si sia fatto sorprendere a “fare shopping” con i soldi presi dalle tangenti. Nessuno sapeva. O meglio, lo sapevamo tutti, o quantomeno lo intuivamo, ma non lo vedevamo, perciò…occhio non vede cuore non duole. Diciamo che quelli della prima Repubblica erano ladri intelligenti, furbi.
Poi, chi foraggiava questo sistema, vale a dire gli imprenditori e i gruppi di potere di un tempo, gli affari non li concludeva nelle segrete stanze, ma prima al ristorante e dopo al bar, davanti a un buon caffè. Chiuso l’accordo, se solo il politico accennava a metter mano al portafogli per pagare il conto, l’omino alla cassa, su idonea segnalazione, lo rassicurava: “No, Onorevole, già fattu. E’ pavatu!
La recente vicenda che ha visto coinvolto l’oramai ex ministro Scaiola, mi ha in un certo senso richiamato alla mente questa consuetudine. Sì, perché l’Italia era e resta una Repubblica fondata sul…rito del caffé.
Solo che oggi, l’equipaggio della nave che ci governa, il nuovo, o meglio, il riciclato che avanza, si crede di essere talmente intoccabile da aver dimenticato cosa vuol dire vergogna.
Uno stato d’animo dal quale lo stesso equipaggio è divenuto praticamente immune. Ed è proprio questa sicurezza però che lo conduce a frequenti svarioni e malaviruti che i “volponi” di un tempo non avrebbero mai commesso.
Invece Scaiola stesso, arrendendosi, dice: “Forse qualche cazzata l’ho fatta…” [da http://www.repubblica.it/politica/2010/05/05/news/scajola_addio_tra_le_lacrime_berlusconi_mi_ha_mollato-3823582/]
L’ex ministro, non trovando di meglio come giustificazione ha affermato: “Non so né di assegni circolari, né di altri pagamenti diversi da quanto da me versato con il mutuo bancario per l’acquisto dell’appartamento in questione. …Non ho mai ricevuto denaro da Anemone, da suoi intermediari o da chiunque altro” [da http://www.repubblica.it/politica/2010/05/01/news/intervista_scajola-3740035/]
In verità, come acclarato da tutti gli organi d’informazione (di destra e di sinistra), sapeva di aver pagato almeno altri 200.000 euro in contanti e in nero.
Può anche non aver ricevuto soldi dall’imprenditore (almeno direttamente), ma certamente, se le proprietarie dell’appartamento non avessero ricevuto l’intera somma (1.700.000 euro) non sarebbero mai andate  insieme al ministro davanti al notaio.
Al quale, tra l’altro, hanno dichiarato un prezzo cui corrisponde un valore unitario che è nettamente inferiore ‘i ‘na casa a’ Marina o a’ Chianalea.
Con somma sorpresa (!?) del ministro Scaiola, al quale le due sorelle, stringendo nella mano sinistra 41 assegni ciascuno, porsero la mano destra e con un largo e rassicurante sorriso, dissero: “E’ pavatu!
E già, pavatu quantu a 1.200.000 café o giù di lì.  I nuovi ladri, non sulu stanno continuandu a mangiarsi l’Italia, s’a stannu puru ‘mbivendu, s’a stannu propriu zzucandu.

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