REGGIO, CH’I PERI A’ FOSSA

E’ tempo di Olimpiadi invernali, forse per questo, a Reggio, m’è tornato in mente quel grande campione che fu Alberto Tomba.
Ricordo ancora i suoi splendidi slalom e non è strano che mi torni in mente mentre, in macchina, vado dalla periferia al centro, in slalom.
Sì, pure io slalomeggio, non per sport ma per necessità; non su una pista innevata, ma su strade d’asfalto (o almeno ne ha le sembianze), dove al posto delle bandierine alternate di Tomba, blu e rosse, ci sono: sacchetti della spazzatura rotolati via dopo aver perso la lotta contro l’angolo di natural declivio della maleodorante montagna che li ospitava, e fosse (da non confondere con le buche, quelle sono sui campi da golf, e qui non ne abbiamo).
Alla fine arrivo in centro, parcheggio, pago (sì, ancora ‘n cacchi fissa c’è) e così come Tomba al traguardo guardava il tabellone per controllare il suo tempo, allo stesso modo alzo gli occhi verso l’orologio del Comune, per controllare quanto ci ho messo a percorrere due chilometri scarsi: solo sette minuti. Ancora in tempo per l’ultimo ufficio.
E’ l’Agenzia delle Entrate, l’ufficio più amato dagli italiani; quello dove conoscono vita, miracoli e soprattutto morte (visti i tempi) delle nostre tasche. Per controllarle usano un programma che hanno chiamato SER.P.I.CO (Servizi Per Il Contribuente), come il famoso poliziotto degli anni ’70. Che simpatici burloni!
E a proposito di simpatia, entrare là dentro non è una cosa tanto simpatica, ma non certo per colpa di chi ci lavora, che, anzi, è estremamente disponibile a rendere l’atmosfera più leggera. E come la Vecchia Romagna -il brandy che crea un’atmosfera (v’u ricurdati?)- quasi quasi l’atmosfera finisce col piacerti, se non fosse che ogni volta che entri, sai già che ne uscirai più leggero, con le tasche più leggere. E in quest’aria di leggerezza che ti pervade, cerchi di trovare il lato positivo: pensi che essendo più leggero, la macchina dovrà vincere meno attrito nel viaggio di ritorno verso Scilla, così almeno arriverai a casa prima.
Poi torni serio, e dopo che t’è passata l’arrabbiatura contro lo Stato-idrovora numismatica, pensi: beh, in fondo ho fatto il mio dovere di cittadino. Ho pagato le tasse per avere servizi più efficienti, strade che non siano “vie Emmenthal” e senza sacchetti della spazzatura a far le veci delle bandierine di Tomba.
E’ un lampo. Solo pochi secondi, giusto il tempo di scendere, leggero, due rampe di scale. Diciotto gradini, di cui gli ultimi tre più stretti, un invito a raggiungere più velocemente l’uscita dopo che ti hanno svuotato: va-tin-di!
I buoni propositi di cittadino-modello svaniscono appena torno in strada. Sì, perché non è una strada qualunque. E’ il Corso Garibaldi, la via principale, la Main Street di questo nostro estremo Sud calabro.
fossa RCVolgi appena lo sguardo a sinistra e scopri che anche qui l’asfalto non è uniforme, il Signor Emmenthal è di casa anche qui. Ma non è una fossa qualunque: lo strato d’asfalto -dello spessore di poco più di una decina di centimetri- sembra esser stato rintagliato con cura dalle sapienti mani di un esperto sarto. Hanno grattato via i segni del tempo recente, tanto che si vede il livello originario della strada e vi è ancora impresso il disegno della pavimentazione più antica. Pensi: avranno iniziato anche qui gli scavi archeologici?
D’altra parte, Piazza Italia è lì, solo 150 metri più avanti c’è il Palazzo Comunale. Un brivido freddo mi percorre: sappiamo bene quanto ci hanno impiegato a completare gli scavi in quel sito.
Voglia di tornare all’antico? Beh, forse non sarebbe poi tanto male, visto che la realtà reggina di questi ultimi anni non ha offerto esempi molto edificanti. E il ritaglio del sarto fatto proprio lì, sotto gli occhi del Palazzo Comunale ne è l’emblema: Rriggiu è ch’i peri a’ fossa, e di occhi per vederla dal Palazzo comunale non ce ne sono.
A proposito di “opere sartoriali”, il pensiero torna a un altro tratto di Corso Garibaldi che negli anni scorsi si è pensato di rimodernare con una nuova pavimentazione. E’ stato un esperimento, per saggiare il gradimento da parte dei reggini. Gradimento che, in verità, all’inizio c’è pure stato, salvo poi trasformarsi nell’ennesima esasperazione, visto e considerato che quello che doveva essere il primo tratto della nuova pavimentazione, ha finito col trasformarsi in quella che i nostri nonni chiamavano “pronta” -visto che parliamo di sartoria- come un saggio di stoffa il cui unico scopo è stato quello di fungere da metro di paragone. Fatto sta che dopo anni, quella “pronta” si è trasformata in una vera e propria toppa. Della nuova stoffa, non si è vista nemmeno l’ombra.
Insomma, il Corso Garibaldi, il salotto di Reggio, il luogo deputato a dar sfogo a umori e (soprattutto) malumori della cittadinanza, la strada dove  è possibile incrociare tutti gli esemplari della variegata umanità di cui la popolazione reggina si compone, è lì: strappato, martoriato, consumato. Con le toppe, come le tute blu con le due righine bianche che usavamo da bambini tutti i giorni, per giocare per strada d’inverno.
E in questo lungo inverno di Reggio, il Corso Garibaldi appare spento, freddo. Non senti più i pensionati commentare con passione le vicende politiche o le sedute del Consiglio Comunale.
Il Corso, è lungo e spoglio, come l’inverno. Nessuno sembra aver voglia di parlare, come i gruppi di punkabbestia che punteggiano gli isolati: ragazzi che giocano a fare i duri, ma se li guardi negli occhi, ti si avvicinano timidi a chiedere qualche spicciolo per un panino, da dividere con i loro cani, e ti ringraziano con un sorriso, senza parlare. Preferiscono dare il loro affetto ai cani, con gli altri non comunicano, solo coi cani. E Reggio è diventata una città che non comunica, disaffezionata alla politica, al confronto. Reggio è ridotta peggio dei cani dei punkabbestia.
Una strada, la prima strada della città, ne è la sua più perfetta rappresentazione.
Anche nella casa più malridotta c’è sempre una stanza meglio delle altre. Di solito è la più grande, quella meglio esposta, più panoramica. E’ li che si passano le giornate, è li che si vive, si parla, si ricevono gli ospiti.
Reggio oggi è come una casa che non ha una stanza che sia migliore delle altre, meno peggio delle altre. E si vede.
Ma poi arriva la sera, il buio copre ogni cosa. Il buio ‘mmuccia ‘i virgogni.
E la città, distratta, prende un refolo fiato, ripopola la piazza.
A Piazza Italia, per una sera, la gente cerca di stringersi più vicina che può. Non sai se è per la reale necessità di scaldarsi contro il freddo della sera d’inverno, o per l’illusione di scaldarsi il cuore con parole che sono un appiglio nel nulla, fuochi fatui, bampugghi, scintille già viste.
<<Ora basta! La città deve ripartire!>>
E in piazza la gente batte le mani. Ancora una volta non sai se è per combattere il freddo o perché ha troppa voglia, direi troppa necessità, di trovare un simbolo da osannare.
Così, batte le mani osannante e dimentica di chi la città l’ha fatta fermare, l’ha ridotta come la sua via principale: una serie di toppe, rappezzata alla meno peggio.
L’applauso, prolungato in sfida al dissenso che si ode poco lontano, si spegne -insieme al dissenso- nel buio della notte.
E’ di nuovo giorno, l’illusione di una sera è svanita ancora una volta, e le “opere sartoriali” del Corso Garibaldi ne sono dolorosa memoria.
Ora basta! La città deve ripartire!
Ma non riesco a capire come si possa pensare che a rimetterla in moto possa essere lo stesso autista –o aiuto-autista, fa poca differenza- che nell’illusione di portarla in alto, ha finito col porre le condizioni perché chi ci vive sprofondasse, come chi passeggia sul Corso Garibaldi, ch’i peri a’ fossa.
E’ di nuovo giorno, ma è un giorno d’inverno, senza sole e freddo, come il cuore dei reggini: a scaldarlo non bastano più le solite scintille.