“DEJAME EN PAZ”: LASCIAMI VIVERE IN PACE, MA NON LASCIARMI SOLA

DEJAME EN PAZC’è chi ama farsi vedere, partecipare agli eventi mondani, essere sempre il primo a vedere un film, una commedia, a comprare un telefono nuovo o a visitare una mostra. Poco importa se poi finisci con l’essere sballottato dalla folla, letteralmente scufazzatu e quello che dovevi vedere finisci col non vederlo o, quanto meno, col non apprezzarlo appieno.

Nui no.

Ecco perché abbiamo aspettato fin quasi all’ultimo giorno per andare a vedere ‘Dèjame en paz‘, l’esposizione inaugurata a Madrid il 13 febbraio, ospitata presso la Sala Esposizioni del Palazzo della Provincia di Reggio Calabria fino a oggi. [qui il filmato dell’esposizione]
‘Dèjame en paz’ -lasciami in pace, a decidere il mio destino di donna e di madre. E’ un esplicito invito rivolto alla classe politica spagnola perché riveda la legge che limita la possibilità dell’interruzione volontaria della gravidanza ai soli casi di violenza sessuale o di grave rischio per la salute della madre.
Ma l’esposizione itinerante -composta da 31 fotografie- vede la partecipazione di artiste da ogni parte del mondo, tra le quali -e lo scriviamo con orgoglio!- la scigghitana Teresa Ribuffo, membro e responsabile per l’Italia del collettivo "Generando Arte" nonché promotrice dell’iniziativa.

Tutte le opere in mostra hanno assunto però una doppia valenza, perché il problema legislativo spagnolo ha comunque fornito lo spunto per una riflessione molto più ampia sulla condizione della donna, ed è servita soprattutto per lanciare l’ennesimo grido di dolore contro le tante, troppe, storie di quotidiana violenza e di morte, di cui le donne sono vittime.

Lasciami in pace, libera di esprimermi! Lasciami in pace, non farmi del male! Lasciami in pace, riconoscimi per quella che sono: madre, moglie, fidanzata, figlia!
A tormentarci nella pace di una sala oramai deserta, è questo grido che riecheggia in maniera chiara e forte lungo il percorso dell’esposizione, che diventa un viaggio nel dolore della realtà attuale, nell’orrore vissuto dalle donne della nostra società.

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Sono donne rinchiuse in una piccola gabbia, ingabbiate cioè in un’immagine ristretta e distorta che gli uomini hanno di loro; donne cui non è rimasto altro che le mani e le braccia a difesa non solo del loro corpo, ma della loro dignità, della loro personalità.

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Sono donne con le mani legate, costrette a decidere contro la loro volontà, a subire il loro destino.

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Sono donne che lasciano macchie di sangue su un lenzuolo: una volta, quel rosso era il semplice elemento, l’indice naturale della perdita dell’innocenza, del divenire donna. Oggi, purtroppo, quello stesso lenzuolo non è più macchiato di sangue, è insanguinato. E’ il risultato non di un atto d’amore ma di una violenza che raggiunge livelli inauditi e impensati. E’ la perdita della vita.

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Sono donne piegate su sé stesse, in ginocchio, soffocate a doppio giro da un cordone ombelicale, cioè da quel legame unico, che esiste solo tra madri e figli. Un cordone che identifica gli affetti più cari: i figli, i fidanzati, i mariti, che si trasformano nei loro carnefici.

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Sono donne considerate alla stregua di macchine fatte di ingranaggi interni, usate per sfornare non persone ma automi condannati a vivere nella schiavitù di un mondo uniformato nell’omologazione digitale.

Fabbriche naturali da far funzionare a comando e secondo il “comando” della legge. Ma quando una legge diventa un comando, non è più una regola buona da seguire.

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Sono donne affrante, consumate, dalla bellezza quasi sfiorita perché sopraffatta dal terrore della violenza subita; donne, moderne pietà, che però nonostante tutto, hanno ancora -e avranno sempre- la forza di difendere i loro figli.

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Sono i volti di tante donne messe insieme, che vanno a comporre il volto di una sola donna che le rappresenta tutte, trasfigurato dal rosso del sangue, dall’orrore generato dall’odio.

Sì, perché come dice Antonio Calabrò nel suo “Reggio è un blues”, “l’odio è il genitore primordiale dell’orrore”.
E tanto orrore, tanto male raffigurato in queste opere, non è altro che il riflesso dell’odio che si annida tra gli esseri umani e che raggiunge livelli impensabili nei rapporti uomo/donna, molte volte inspiegabili per la “gente normale”.

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Davanti a questa esposizione di tanta sofferenza, vi è comunque la forza della consapevolezza di essere donne, esseri umani.
Ed ecco che in mezzo al rosso-sangue dell’orrore, spunta una luce bianca, intensa, attraverso la quale s’intravede appena una donna che grida per il suo dolore, per il suo amore, per le sue ferite: “Non lasciarmi sola!”

Non lasciarmi sola!
E’ un grido lanciato con le ultime forze, che attraverso la luce bianca giunge ancora flebile alle nostre orecchie, come un sussurro ma la cui eco risuona forte e chiara nella sala vuota, illuminata dalla luce bianca del sole che annuncia una nuova primavera.

 

Nelle fotoTeresa Ribuffo – Espana, libre albedrio en libre estado; Adriana Exeni –Esposadas; Gema Lopez –La Perdida; Myriam de Miguel -Doble vuelta; Esther Perez De Eulate – Tu vientre nos pertenece;  Katia Pangrazi – Pietas;  Beatriz Diaz – Atrapada; Susana Ribuffo -Yo, humana.

Il catalogo completo delle opere lo trovate cliccando qui