LETTERINA DI NATALE 2017: LE BRACCIA APERTE D’ITALIA

Caro Dio, come ogni anno puntuali ci ritroviamo. Quest’anno però, prima di farti le mie richieste, voglio raccontarti la storia, anzi, le storie di alcuni uomini e donne che ho...

braccia aperte

Caro Dio,

come ogni anno puntuali ci ritroviamo. Quest’anno però, prima di farti le mie richieste, voglio raccontarti la storia, anzi, le storie di alcuni uomini e donne che ho incontrato lungo il mio cammino quest’anno.

Quando Omero scrisse l’Odissea certo non immaginava quanto traffico si sarebbe generato nello Stretto secoli dopo, quanti Ulisse inconsapevoli lo avrebbero solcato. La storia ha sempre lo stesso sfondo: guerre, beghe politiche, odio, vendetta e altre porcherie che saremo anche arrivati sulla Luna e Marte ma le basi le abbiamo dimenticate proprio.

Non so come si chiami, ha la voce talmente sottile che non riesco a sentire, a capire. È bella ma continua a piangere, per strapparle un sorriso fatico molto, ma poi si apre, mi mostra un video sullo smartphone: donne truccatissime e bellissime nei loro abiti tradizionali, scopro che quella vocina, in realtà, è corposa ma dolce, piena ma ricca di sfumature. In Costa d’Avorio era una cantante, poi il rapimento e le strade della Libia su cui quel corpo curato è diventato carne da macello per uomini affamati. Ha solo un sogno, poter continuare a studiare musica, ricordare al mondo che lei, nel suo Paese, ha studiato le note e ne ha fatto una ragione di vita.

Ha un anno e mezzo, corre con una felpa troppo grande per lui sulle gambe della mamma per farsi cambiare il pannolino. È più grandetto di quanto non mi sia apparso appena sceso dalla nave della Guardia Costiera che lo ha salvato con altre centinaia di persone. Non smette di sorridere guardando la mamma e il papà, linee dritte come statuine di ebano. Chiedo se posso scattargli una foto e si presta per poi chiedermi un bacio in cambio. Non gliene importa niente che accanto a lui il contrasto del colore della nostra pelle stia restituendo una foto in bianco e nero: per lui sono solo una donna che gli sta porgendo la mano e la guancia contenta che sia salvo.

Si vede subito che è un ragazzino, ha gli occhi d’avorio, fissi, come quelli di quanti ne hanno viste troppe. Ha 17 anni, lo hanno rapito con un amico, chiuso in un campo e messo a lavorare in una fabbrica di mattoni. È stato torturato e venduto come fosse un pezzo d’arredamento, un soprammobile che non si abbina più con gli stipetti della cucina nuova. Il suo amico ha subito la stessa sorte ma è stato ucciso, non serviva più provato com’era. È stato comprato e la storia è ricominciata daccapo finché non è stato rivenduto. Ma questa volta il finale è diverso: l’uomo che lo ha acquistato lo ha portato di notte su una spiaggia e lo ha messo su un gommone in partenza. Chiedo se non sia stato chiesto prima un riscatto alla sua famiglia e mi risponde che non ha voluto lui: ha solo la madre e vivono in miseria: «Ho preferito mi sapesse morto ché schiavo».

Ihmad ha 22 anni, ha studiato ingegneria affascinato dai pozzi che gli italiani hanno costruito in Libia: «Stanno ancora lì, funzionano, è incredibile come voi italiani abbiate costruito strutture che ancora reggono». Viene da Garian, sull’altopiano del Gebel, un territorio talmente impervio che le case sono costruite nella roccia. Ihmad sta scappando, paga il peccato di aver difeso la sorella. I suoi genitori sono marocchini ma è nato in Libia e per la Libia è cittadino marocchino. I suoi genitori sono marocchini ma è nato in Libia e per il Marocco è cittadino libico. Ihmad non ha Patria, mi ricorda l’hadith: “Il Paradiso sta sotto i piedi delle madri”, la donna che lo ha messo al mondo è la sua unica patria. Aggiunge: «A me non interessa se credi o come lo chiami, ma Allah, Dio o qualunque altro nome appartengono alla stessa entità e se tutti ricordassimo di dimenticare quando facciamo del bene e ricordassimo quando facciamo del male, non saremmo combinati così». Non so come dirglielo, ma forse anche il nostro “Fa’ beni e sperditi, fa’ mali e ricordati” lo abbiamo tradotto dall’arabo in tempi non sospetti in cambio della costruzione dei pozzi. Ihmad non aveva mai visto il mare, è cresciuto fra quelle montagne di cui ha capito il senso di protezione quando ha visto l’infinità dell’acqua, ha avuto paura: prima hanno preso i pakistani, poi gli egiziani, poi i singoli e infine le famiglie (Calvino inizia a recitarmi in testa ‘Se questo è un uomo’): ha avuto paura: come può chi non ha mai visto il mare salvare quei bambini che non hanno alcun peccato, che non hanno potuto scegliere (Calvino è seduto accanto al mio bisnonno che ripete: “A mari non c’è taverna, non lo sfidare”)? Questo ragazzo che mi guarda negli occhi e non sa che mi sta dando una lezione di vita che difficilmente dimenticherò ha un solo sogno: salvare la madre e la sorella, avere una tregua.

Ecco, Dio, quando sento queste storie penso che la Calabria e la Sicilia sono già combinate a tre tubi per conto loro, però le braccia le hanno sempre aperte. Non ti chiederò, come gli altri anni, gesti concreti ma la forza di continuare a fare del nostro meglio, di non dimenticare da dove veniamo e la voglia di allargare queste braccia sempre di più. E ogni tanto strizza gli occhi e metti meglio a fuoco le forze dell’ordine, i volontari, i medici della Croce Rossa e gli interpreti come me che rappresentano il primo volto dell’Italia che questi poveri disgraziati vedono; aiutaci a fare sempre il nostro dovere con coscienza ma mantenendo sempre un angolo del cuore per tutti gli Ihmad che incontriamo.

Buon natale, Dio.

Letizia Cuzzola