Riflessioni (a freddo) sul referendum (e un’ipotesi "accademica" di sostituzione dell’articolo 75)

L’esito catastrofico delle assise referendarie del 21/22 giugno dimostra soltanto una cosa. Che la partitocrazia ha il coltello dalla parte del manico e non intende mollarlo.

Scilla (Italia), 25 giugno 2009

Quando un referendum non raggiunge il “quorum” ognuno si sente autorizzato ad attribuire alla manifestazione di volontà degli elettori qualsiasi significato. Ed il suo contrario. Nel ’99, ad esempio, per un soffio e – soprattutto – per cavilli sui quali ci sarebbe ancor oggi da indagare in merito al calcolo effettivo degli elettori sui quali stabilire la metà più uno di essi, il quorum non venne raggiunto. Del quasi cinquanta per cento di elettori che votarono, comunque, una maggioranza schiacciante si espresse per una trasformazione della legge elettorale di allora che abolisse la “quota proporzionale” e rendesse il sistema esclusivamente maggioritario, uninominale, a turno unico. Ebbene: più di una faccia tosta ebbe a dire che gl’Italiani s’erano chiaramente espressi per un ritorno al sistema proporzionale!
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. Nel frattempo, la voglia di proporzionale e di ritorno alla politica del pollaio non s’era mai sopita nella parte maggioritaria della classe dirigente italiana, che aveva accettato obtorto collo d’introdurre un po’ di principi elettorali anglosassoni nel nostro ordinamento, a tutto vantaggio della riduzione della frammentazione partitica, della partecipazione diretta dell’elettore alla scelta del governo, della relativa stabilità della durata in carica del presidente del Consiglio, col conseguente aumento della continuità, coerenza ed efficacia della programmazione governativa… Il proporzionalismo, sapientemente instillato nella testa di Berlusconi da Giuliano Urbani fin dal 1993, lentamente preparava la sua rivincita. Venne l’autunno del 2005, periodo di particolare difficoltà per il centrodestra allora al governo che disperava di potervi rimanere anche dopo le elezioni della primavera successiva che avrebbero segnato il pur stentato ritorno di Prodi a palazzo Chigi. Con le foglie e le piogge, cadde dal cielo anche la legge Calderoli. Il porcellum – secondo la passione latino-maccheronica del prof. Sartori – o la porcata, secondo la schiettezza padana del suo stesso proponente. Vale a dire un inestricabile guazzabuglio di liste, coalizioni, soglie di sbarramento diverse a seconda che si faccia parte o no di una coalizione o che questa coalizione raggiunga una certa altra soglia appositamente creata per essa… Non potevano che venirne le coalizioni-treno con i pensionati di destra e di sinistra, gli ecologisti popolari e quelli socialisti, gli autonomisti bossiani e quelli antibossiani, i Craxi alla Stefania e i Craxi alla Bobo, i Letta alla Gianni e i Letta alla Enrico… E poi: il sostanziale pareggio del 2006 (ventiquattromila voti di scarto fra l’Unione prodiana e la Casa delle libertà berlusconiana) e la conseguente formazione di una maggioranza in stile armata Brancaleone che per di più al Senato era a dir poco spericolata…
Guardando questo quadro, il genio del costituzionalista messinese Giovanni Guzzetta si rimetteva in moto e, cosa che può capitare soltanto ai geni, in questo guazzabuglio riusciva ad intravedere – ben sapendo, a norma di articolo 75 della Costituzione, di poter usare soltanto il bianchetto e non anche la penna – un sistema elettorale che avrebbe potuto provocare la trasformazione del sistema politico in senso bipolare a tendenza bipartitica, dando addio per sempre – al contempo – ai partiti con l’uno virgola sei per cento che avrebbero potuto esprimere il ministro della Giustizia o che con centomila e rotti voti sarebbero stati premiati con un posto da viceministro alla Farnesina…
E’ qui che nascono i tre quesiti referendari, la cui campagna di raccolta firme si concluse già nell’estate del 2007 e che vennero ammessi dalla Corte costituzionale nel gennaio successivo. E’ l’iniziativa referendaria a contribuire all’accelerazione di dinamiche già in atto. Il “la prossima volta, corriamo da soli” annunciato in tempi molto precedenti le ancora impreviste elezioni del 2008 dal primo segretario dell’allora neonato Partito democratico Veltroni. E, soprattutto, l’uscita dalla maggioranza di Mastella che, provocata nell’immediato dall’inchiesta giudiziaria che interessava la sodale di vita e di politica Sandra Lonardo, covava in realtà già da qualche tempo proprio per il triplice referendum Guzzetta che suonava come un vero e proprio spauracchio per i partiti microbici e ricattatori.
Mastella fece male i suoi calcoli e si ritrovò senza lavoro e senza casa. Lo scioglimento delle Camere provocò la sospensione automatica della procedura referendaria già indetta, come speravano, appunto, Mastella e gli altri nanetti. Ma Veltroni tenne duro – pur concedendo una deroga all’Italia dei valori – e dimostrò che il “corriamo da soli” non era un bluff. Berlusconi trasse dall’atteggiamento veltroniano il coraggio per realizzare la più grande sezione nazionale del Partito popolare europeo. Il referendum Guzzetta, così, senza essere celebrato, produceva ugualmente gran parte dei suoi effetti, in quanto per i partiti esclusi dall’alleanza con uno dei due maggiori, le porte del Parlamento nazionale sarebbero rimaste sbarrate se non avessero ottenuto almeno il quattro per cento in tutt‘Italia alla Camera o l’otto per cento in almeno una Regione al Senato. Cosa avvenuta soltanto all’Udc di Casini e del controverso ex presidente siciliano Cuffaro.
Da qui l’impressione di una perdita di necessità ed urgenza della “riforma elettorale per via referendaria”. Ma non si trattava che di un’impressione. La vigenza del vecchio sistema, infatti, ha consentito le deroghe ai dipietristi e ai bossiani che ci hanno regalato due forti partiti medio-grandi in grado di squilibrare la politica dei due partiti principali. In senso contrario ad ogni riforma dell’ordinamento giudiziario – Idv nei confronti del Pd – o verso una quasi completa sordità alle necessità di sviluppo economico ed infrastrutturale del Mezzogiorno e delle Isole, la Lega Nord nei confronti del Pdl. Senza contare che il Partito democratico ben difficilmente riproporrà la sua corsa semisolitaria, data la priorità assoluta di riconquistare la maggioranza anche a costo di mettere a repentaglio la coesione e la coerenza della futura compagine di governo, e che il Popolo della libertà non potrà non reagire allo stesso modo alla moltiplicazione delle liste alleate sull’altro fronte. Il fallimento del referendum non obbligherà la politica a tornare indietro. Ma il rischio c’è ed è fortissimo e presto potrebbe diventare irresistibile…
Quest’esito è stato reso possibile dagli antidoti che la partitocrazia ha sempre vittoriosamente escogitato per disinnescare tutte le possibilità di reale democratizzazione dei processi decisionali. Ha atteso oltre vent’anni prima di dar vita alla legge che avrebbe consentito l’attuazione dell’articolo 75. Non paga, vi ha seminato qua e là i congegni che l’avrebbero resa sostanzialmente inutile. Per esempio quell’assurdo slittamento di un anno del referendum previsto in caso di scioglimento delle Camere. In base a quale logica? Se si seguisse la logica, non ci sarebbe nulla di più coerente che esprimersi nella stessa giornata sulla scelta dei legislatori e sull’indirizzo da dare alla legislazione stessa, in almeno una materia.
La mancanza, poi, di norme che vietino al Parlamento di legiferare in senso contrario alla volontà referendaria per un certo numero di anni o di farlo soltanto a condizione di richiedere il parere del popolo – e questa volta senza quorum – ha consentito in un numero di casi allarmante di ignorare tranquillamente il responso delle urne. Aspetto tutt‘altro che secondario nel determinare la disaffezione di gran parte degli italiani nei confronti dell’istituto.
Sono necessarie delle modifiche all’istituto. La politica non le farà perché non ne ha interesse. E siccome non ha neppure il coraggio di abolire una buona volta questo benedetto 75, si dovrà sperare soltanto in una crescita della consapevolezza degli elettori dell’importanza di ogni singolo appuntamento con le urne.
Bisogna alzare il numero di firme necessarie per chiedere il referendum, data la facilità di raccolta enormemente maggiore che nel 1947 concessa dai moderni mezzi di comunicazione e di trasporto. Bisogna abbassare il “quorum” perché se è vero che un suo secco annullamento renderebbe astrattamente possibile a minoranze estremamente organizzate d’imporre la loro volontà a tutta la Nazione, è anche vero che non si può obbligare la gente a provare interesse per cose nei confronti delle quali non ne prova affatto né è giusto che i contrari all’abrogazione facciano blocco con i puri e semplici indifferenti, facendo sì che il loro non voto assuma un valore almeno doppio rispetto a quello di chi va a votare e vota sì. Bisogna concedere alle leggi del Parlamento ed agli altri atti legislativi un periodo di vita che le protegga da modifiche immediate e le faccia valutare nella pienezza dei loro effetti e dei loro limiti. Bisogna far sì che la data del referendum sia ben determinata e che non sia in balia delle esigenze e dei capricci della partitocrazia…
E così, per puro divertimento estivo, ho provato a rispondere a queste esigenze nella fantascientifica proposta di revisione dell’articolo 75 nel modo seguente:

È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, in vigore da almeno sei anni, quando lo richiedono un milione d’elettori o un terzo dei Consigli regionali. Il termine di sei anni non si riferisce alle modifiche ed alle integrazioni intervenute su un testo esistente. La richiesta di abrogazione parziale non può interessare una parte di testo normativo inferiore ad un intero articolo o, per gli articoli composti da più di quattro commi, ad un intero comma.

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.

Il termine per la raccolta delle firme o delle deliberazioni dei Consigli regionali necessarie non può essere superiore a tre mesi. Il referendum ha luogo la seconda domenica di maggio, se la perfezione della richiesta ha avuto luogo entro il 31 dicembre precedente, ovvero la seconda domenica di novembre se ha avuto luogo entro il 30 giugno dello stesso anno.

La proposta soggetta a referendum è approvata se hanno partecipato alla votazione i due quinti degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

Nei sei anni dallo svolgimento del referendum, non possono essere adottate ai sensi degli articoli 70, 76 o 77 modifiche od integrazioni ad una legge o ad un atto avente valore di legge che vadano in senso contrario a quello espresso dalla votazione, in caso sia di accoglimento sia di diniego della proposta, che sia valida ai sensi del precedente comma. Durante il predetto termine, il comitato promotore del referendum o quello per il voto contrario, costituiti secondo la legge, o, per i referendum proposti da Consigli regionali, il Presidente di una Giunta o di un Consiglio regionale, anche di Regioni diverse da quelle i cui Consigli hanno promosso il referendum, possono promuovere davanti alla Corte costituzionale la sospensione degli effetti e la questione di legittimità di una legge o di un atto avente valore di legge che abbia introdotto modifiche o integrazioni che vadano in senso contrario a quello espresso dalla votazione. Nel periodo compreso tra il sesto ed il quindicesimo anno successivo alla votazione valida, gli stessi soggetti, senza ulteriori raccolte di firme o deliberazioni di Consigli regionali, possono promuovere l’abrogazione, mediante referendum, delle modifiche ed integrazioni adottate dal Parlamento o dal Governo in senso contrario a quello espresso dalla votazione. La proposta soggetta a referendum è approvata se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

La legge determina le modalità di attuazione del referendum.

Giovanni Panuccio

giovannipanuccio.blog@gmail.com


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