I LADRI ANTICHI, I LADRI MODERNI E L’APPRENDISTA FORGIARU

Il suono delle tre mazze che battevano all’unisono sull’incudine scandiva il passare del tempo nei pomeriggi dopo la scuola. ‘U mastru forgiaru, con un martellino, teneva il ritmo e dava il segnale d’inizio e di chiusura delle operazioni di forgiatura.
Servivano molta abilità e attenzione da parte deli apprendisti, che erano ragazzi, a volte bambini della scuola elementare che prestavano orecchio a quello che non era un rumore, ma una vera e propria melodia fatta da strumenti d’acciaio, e seguendo ogni fase con occhio attento, magari standu addritta magari supra a nu banchittu.
Un iornu, uno di loro, chi evidentementi aiva l’occhi cchiù vurpigni, si accorse chi ddhà ‘n terra nc’era ‘n cacch’cosa chi luccicava. Si ‘mbicinò passu passu, pi non farsi vedere dal mastru -che in verità lo seguiva con la coda dell’occhio- e, mbasciatusi ‘n terra raccolse alcune monete.
Aippi il primariu istintu mi si sarba nta sacchetta, ma poi, seppur figghiolu, l’apprendista si ricordò delle parole che gli aviva dittu so’ patri.
“Figghiu, sta’ attentu. Se viri sordi ‘n terra, non mi ti sarbi? Pigghili, vai nto mastru e dinci:’Mastru, ddhà ‘n terra truvaia chisti’. E nc’i runi, capiscisti?”
E cusì fici. L’apprendista chiamò ‘u mastru e gli consegnò i pochi spiccioli che aveva raccolto da terra.
Il vecchio mastru, lo guardò negli occhi e, con un’espressione soddisfatta, dandogli un buffetto sulla guancia disse: “Oh, bravu figghiuceddhu. Grazii.” E rimise gli spiccioli nei pantaloni, nella stessa tasca dalla quale li aveva fatti cadere.

Ho voluto qui riportare questo piccolo episodio narratomi qualche giorno fa da un mastro scillese, perché mi è sembrato estremamente indicativo.
Non si mandavano i figghi adolescenti a lavorare, con la presunzione di far diventare i propri figli più bravi dei maestri. Certo, qualcuno ci è riuscito pure.
No, lo scopo era sì quello racimolare qualcosina in più nel bilancio familiare, ma soprattutto quello di far imparare ai ragazzi l’etica del lavoro e, con essa, il valore dell’onestà. 

Onestà significa fiducia; fiducia significa lavoro; lavoro significa soddisfazione, gratificazione sociale, vita.

Iari “o’ mastru” quindi, non significava solo apprendere un qualcosa di materiale, di pratico, che ti sarebbe magari servitu in futuro. Il più delle volte infatti, i vecchi bravi artigiani (forgiari, scarpari, falignami, buttàri, ecc.), erano così gelosi delle loro capacità creative, della loro arte, da evitare abilmente di far scoprire ai giovani apprendisti tutti i segreti della loro arte.
Iari “o’ mastru”, sacrificando magari le ore di svago pomeridiane, implicava anche imparare ad apprezzare la fatica, capire che quel poco che si guadagnava non pioveva dall’alto, ma era il frutto di sacrificio, sudore, attenta applicazione. Non era una semplice scuola dei mestieri, costituiva la scuola di uno stile di vita che, purtroppo, da noi stiamo perdendo ogni giorno di più.
Dico da noi, pirchì nelle parti più povere del mondo, lì dove operano solo i missionari, per esempiu, questa che è una vera e propria filosofia di vita, viene ancora applicata, con buoni risultati.

In Europa, nel mondo occidentale, questo sembra essere invece un mondo lontano anni luce dal nostro moderno modo di pensare. E’ vero, per fortuna siamo andati tutti a scuola, abbiamo tutti un diploma, molti, moltissimi frequentano le università, con la speranza e nell’illusione di poter diventare tutti avvocati, medici, ingegneri, architetti.
Per carità, è tutto legittimo. Ma cu’ zzappa? Cu’ sapi ‘ggiustari un paru di scarpi? Cu’ sapi lavurari cchiù ‘u ferru o ‘u lignu?

La scuola attuale è divenuta una giungla, dalla quale i propri figli devono emergere. E’ stato calcolato che gli attuali professori universitari non sono altro che i figli dei professori dei nostri padri e che in Italia il “tasso di gioventù” del corpo insegnante a livello universitario, è il più basso d’Europa.
Ndi inchimu ‘a bucca di meritocrazia, ma poi, nei fatti, si fa poco o nulla per cambiare un sistema che è fermo al ’68. I programmi scolastici sunnu vecchi quantu a mia!
Queste carenze formative -chi, quandu unu va’ a scola, non ci faci né caddu e né friddu- finiscono inevitabilmente col trasferirsi nella società, nei centri decisionali, nella politica, nelle leggi che regolamentano (o dovrebbero regolamentare) le nostre vite.
E di questo gioco al massacro, del “ieu sugnu megghiu ‘i tia”, di questa quotidiana applicazione della famosa legge del “futtiri cumpagnu” è figlia anche una nuova concezione del termine “ladro”.

In un recente convegno alla Luiss di Roma, il Presidente della Camera, On. Fini ha fatto unas netta distinzione: all’epoca di tangentopoli, i politici che gestivano il potere sì «erano ladri, ma sulle loro spalle c’era il peso di mastodontici apparati». Oggi, che quel sistema  continua (magari con minore evidenza, ma continua), «Oggi ci sono tanti episodi di malcostume e tangenti ma vanno considerati per quello che sono, volgari lestofanti.» Sì, secondo Fini «Oggi chi ruba non lo fa per il partito ma perché è un ladro. »

Mah! Questa distinzione, tra ladri di una volta e ladri moderni non mi cunvinci. Chi vuol diri?  E’ come se considerassimo due apprendisti che avessero frequentato il laboratorio ru mastru forgiaru, diversi dall’onesto protagonista del racconto fatto all’inizio. 
L’apprendista della “prima Repubblica”, ha preso i soldi da terra e poi magari, dopo il lavoro, è andato a comprarsi il gelato con gli altri amici, colleghi di lavoro. 
L’apprendista della nostra epoca, della “seconda Repubblica”, ha raccolto i soldi da terra e se li sarebbe tenuti per sè.


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