L’INFERNO DEGLI OSPEDALI RIUNITI: LA TESTIMONIANZA DI UNA GIOVANE REGGINA. SE QUESTO E’ UN MALATO….

downloadSono passati solo pochi giorni dall’ultima, eclatante, protesta contro la continua –e oramai quasi conclusa- spoliazione dello “Scillesi d’America” la cui sorte sembra essere definitivamente segnata.

I burocrati, calcolatrice alla mano, hanno decretato che il nosocomio scillese non serve, è superfluo, e deve essere utilizzato per “compiti inferiori” rispetto a quelli per i quali è stato fatto nascere ed è stato progettato: non un ospedale, ma un poliambulatorio. Eppure, se questo è il destino che hanno scelto menti più eccelse e più illuminate, nulla è stato fatto –e son passati tre anni!- per attivare nel modo migliore questa nuova struttura, la “Casa della salute” l’hanno chiamata, ché uno ci entra e si sente già meglio. Se funzionasse!

Così, mentre quella di Scilla è una scatola vuota, gli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria scoppiano! E’ la logica, prevedibilissima (eppure…) conseguenza di scelte fatte con la calcolatrice in mano, ma senza riflettere su cosa significassero i numeri che quella calcolatrice ha sputato fuori: non erano numeri, erano persone!

Dicevamo, Reggio scoppia! Non è una fissazione nostra –e di tanti altri, che sappiamo condividere il nostro pensiero- è un dato di fatto! Ce lo dimostra in maniera chiara e lampante, nella sua drammaticità pur sdrammatizzata da un forte spirito ironico quanto battagliero, la testimonianza diretta di una giovane donna reggina, che è passata per l’inferno –sì, l’inferno!- dei Riuniti.

Un superstite della ShoahUn’atmosfera –il paragone non sembri esagerato- che ci ha richiamato alla mente l’opera di Primo Levi, che possiamo senz’altro parafrasare (ci perdonerà…) dicendo: se questo è un malato….

Davanti ai pazienti oncologici incatenatisi a Scilla, così come davanti a testimonianze come questa, ogni commento appare superfluo. Ve la proponiamo perché è importante fare memoria di ciò che ci sta accadendo. Meditate.

“Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
                                                                stando in casa andando per via,
                                                coricandovi alzandovi;
                                                   ripetetele ai vostri figli.”

                                                         (da “Se questo è un uomo” –di Primo Levi)

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Sono un architetto e una mamma di Reggio Calabria di 29 anni, ma prima di tutto una donna affetta dalla sclerosi multipla con diagnosi definitiva nel settembre 2010, dopo una prima paralisi facciale (lato dx) e problemi con la vista, l’ennesima risonanza e le nuove lesioni riscontrate a livello celebrale.

Sono passati 5 anni da quando ho scoperto la mia malattia. Ho imparato a conviverci, senza farmi mai fermare né dalla stanchezza e dai problemi che questa patologia porta né dalle conseguenze della terapia: sono costretta a delle iniezioni sottocutanee di interferone tre volte a settimana, che soprattutto durante il periodo estivo mi fanno andare a mare in versione “Pimpa”, visti i lividi sparsi per tutto il corpo. Senza parlare del mal di testa e del male alle ossa che si scatenano durante la notte dopo l’iniezione. Comunque risolvibili con un paio di compresse di paracetamolo.

Ho imparato a conviverci e sono riuscita a concludere serenamente il mio percorso di studi, a costruirmi una mia famiglia, che dall’anno scorso può contare tra i suoi componenti una piccola monella che però, per quanto capricciosa, mi aiuta a non pensare al mio problema e al momento in cui, una volta diventata grande, dovrò raccontarle e spiegarle che cos’ha la mamma e cosa sono quelle “punturine” e quei lividi che adesso guarda con curiosità.

Sono riuscita anche a realizzarmi a livello lavorativo. Certo, la città non offre molto in termini occupazionali per il nostro settore e meno che meno a noi neolaureati, ma almeno in termini di gruppo di lavoro sono riuscita a trovare dei colleghi fantastici, che ormai sono diventati parte della mia grande famiglia. E, purtroppo per loro, oltre a condividere con me tutti i momenti positivi e negativi che questo mestiere comporta, condividono anche i contro di una patologia silenziosa come la sclerosi multipla che, dopo 5 anni, quest’estate è tornata a farsi risentire con una bella ricaduta che mi ha “regalato” la paralisi temporanea alle mani (molto più accentuata sul lato dx di nuovo), all’addome e alla gamba destra. Sono conseguenze che, da donna-mamma-lavoratrice e moglie, avevo messo in conto. Soprattutto col caldo estivo che non ne aiuta certo il decorso. Sono periodi un po’ difficili da superare per un architetto che con la mano destra ci lavora quotidianamente, ma lentamente, anche se il formicolio resta, a mesi di distanza si superano.

Non avevo però messo in conto che cosa comporta farsi ricoverare nel Reparto di Neurologia degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria durante il periodo estivo. Come se una persona potesse permettersi il lusso di scegliere in quale periodo ammalarsi!

Beh, nel caso in cui optiate per il periodo estivo (indicativamente metà luglio) come ho fatto io, troverete dimezzato il personale di turno (e tra questi, i grandi assenti saranno gli stessi dottori, che pure durante l’anno vi seguono con i controlli periodici e vi salutano ogni volta dicendo di contattarli in caso di bisogno), l’impianto di condizionamento non funzionante (con una media di 38°-40°), un livello di pulizia che farebbe inorridire persino i paesi del Terzo Mondo, un’attesa di almeno mezza giornata (dalle 8 di mattina fino alle 18.30) per un posto letto o, nel caso più estremo, per una barella, con il personale infermieristico che fa la spesa tra i vassoi del carrello mensa. Vassoi e pasti che spetterebbero di diritto ai pazienti, ma si sa, nella giungla vige la legge del più forte; quindi le povere gazzelle allettate perché anziani con ictus o ischemie o più o meno giovani con la flebo attaccata al braccio, corrono inutilmente. Il leone si è già procurato la sua scorta di cibo e si è addormentato placidamente nel gabbiotto-infermeria.

Ma il paradosso più assurdo, almeno per una paziente affetta da una ricaduta da sclerosi multipla, è il doversi ricoverare per fare d’urgenza una risonanza e così cominciare il ciclo di cortisone per “spegnere” l’infiammazione, perché poi si tratta di questo, di nuove infiammazioni (lesioni) al tessuto nervoso centrale, che possono essere curate (cicatrizzate) con un ciclo di cortisone da 3 o 5 gg. Dipende sempre dall’entità delle lesioni. E’ il dover risolvere una ricaduta tramite ricovero quando basterebbe, secondo la prassi di tutti gli altri centri (funzionanti), un Day Hospital che, in realtà, a Reggio Calabria è inesistente . E’ il dover attendere, senza terapia in corso (quindi con un aggravamento progressivo della disabilità) ben 3 giorni per una risonanza, perché il personale di radiologia formula un proprio calendario personale, che segue un suo ordine di priorità: quello del comparato e dell’amicizia.

Spiegatemi l’urgenza dove sta allora e perché, per vederci garantito un diritto essenziale, io, come anche altri pazienti del reparto, siamo stati costretti a rivolgerci giorno per giorno al primario del reparto e al direttore sanitario, per veder accelerati i tempi della risonanza con la conseguente terapia? E poi spiegatemi dove sta l’umanità di un dottore che lascia digiuno un paziente una giornata intera per la risonanza, riprogrammandola in continuazione dal pomeriggio precedente a prima di pranzo e poi prima di cena della giornata successiva?

Io avrò anche sbagliato a decidere di trasferirmi da Torino a Reggio Calabria, spostando di conseguenza anche il centro di riferimento per la mia patologia e i miei controlli. L’ho fatto per amore. Di mio marito. E della città, la mia città. Perché, per quanti anni abbia passato a Torino, sono nata a Reggio e questa città mi è sempre rimasta dentro e l’ho sempre sentita mia. E lo rifarei ancora, con la sola differenza che ora non mi sento più di cercare delle spiegazioni per chi decide di lasciarla. Non mi sento più di dire che se la gente continua a scappare e a non combattere, qui le cose non cambieranno mai. Come fanno a cambiare le cose, se i diritti più essenziali di un malato vengono negati? Come fanno a cambiare le cose, se prima di tutto non cambiano le persone che in questa città ci abitano e lavorano?

F.N.